Rosa, Maria, Delia, Ester, Annalisa, Nicoletta…sono solamente alcuni dei nomi di vittime da femminicidio da inizio anno in Italia.
A marzo erano già 14, più di una a settimana, solo nel nostro paese…al netto di violenze fisiche e psicologiche che non sono sfociate, per il momento, in omicidio e senza considerare le violenze che, per paura, non sono state denunciate.
Vi do un altro dato: l’anno scorso, nel 2023, i femminicidi in Italia sono stati 118 di cui 96 in ambito familiare o affettivo…
Sono innumerevoli i discorsi che sono stati fatti, come per esempio “bisogna educare gli uomini sin da bambini a non considerare le donne come una proprietà, ci vogliono pene certe e severe, è necessaria una maggiore protezione per le donne minacciate” …ma la situazione non sembra migliorare.
Sono sorte, fortunatamente, svariate associazioni che cercano di proteggere le donne che chiedono aiuto e cercano di portare avanti battaglie per diminuire i femminicidi, ma tutto sembra così difficile, oserei dire incancrenito.
Personalmente sono venuta a contatto con donne che hanno vissuto situazioni così
tragiche, alcune anche affettivamente molto vicine a me e loro sembra che ce l’abbiano
fatta, per fortuna: certo stanno raccogliendo i loro pezzi e li stanno ricomponendo con tanta fatica, in una maniera diversa in modo che nessuno possa più fare loro del male.
Questo racconto è dedicato a tutte queste donne, maltrattate, distrutte, a volte rinate, spesso purtroppo non più tra noi; ho scelto come titolo “Il rossetto rosso” sia perché è sempre stato considerato un simbolo di femminilità, sia perché rappresenta la ribellione a una situazione che deve assolutamente cambiare: nel 1912, infatti, Elizabeth Arden marciò lungo la 5th avenue a New York a favore dell’uguaglianza di genere, distribuendo rossetti rossi alle suffragette come simbolo di solidarietà.
Buona lettura.

Alice attese che il computer si spegnesse come ogni sera.
Era da quando si era diplomata in ragioneria che si occupava di contabilità in una piccola azienda di spedizioni.
Si trovava bene, anche se il lavoro era un po’ monotono, ma i proprietari erano una famiglia gentile e comprensiva e lo stipendio arrivava puntuale ogni mese: del resto lei era la cosiddetta impiegata modello, mai in ritardo, disponibile, preparata e gentile.

All’età di diciannove anni, erano tanti i sogni che custodiva nel cassetto: avrebbe voluto studiare alla scuola serale per interpreti, in pieno centro a Milano, pagandosela con il lavoro di contabile e poi lasciarlo, per viaggiare per il mondo traducendo, in simultanea, le parole di importanti capi di stato.

Invece aveva conosciuto Fulvio ed era stato amore a prima vista.
Fulvio era proprio bello, moro con due spalle da nuotatore e una carnagione che sembrava sempre abbronzata.
Nel giro di meno di due anni si erano sposati; purtroppo i bambini non erano arrivati, ma forse era stato meglio così.

Ora Alice aveva quaranta anni e, quella sera, non aveva assolutamente voglia di tornare a casa: a dire la verità era già da parecchio tempo che avrebbe preferito stare in ufficio a fare i conti.
Andò alla toilette, come ogni sera prima di uscire e si guardò allo specchio: cosa ne era stato della bella ragazza con quella luce particolare negli occhi, pronta aconquistare il mondo?
Abbassò lo sguardo, si lavò le mani e ritornò in ufficio.
Si mise il cappotto nero e prese la sua borsa a tracolla.

Vide sul cellulare una notifica di Facebook: era il ventesimo mi piace a una foto in cui lei e Fulvio sorridevano al mare, l’estate scorsa.
Uscì dall’applicazione accorgendosi che il cellulare era quasi scarico.
Mannaggia, disse fra sé e sé.
“Ciao Irene. Buon weekend”, disse Alice alla collega con la quale condivideva l’ufficio da parecchi anni.
Ormai la considerava un’amica, anzi era l’unica amica che le era rimasta e anche Irene si era molto affezionata a lei.
Si vedevano solamente in ufficio: spesso la collega l’aveva invitata per andare al cinema o a mangiare una pizza alla sera o nel weekend, ma Alice aveva sempre declinato l’invito.

“Ciao Alice. Ci vediamo lunedì”, rispose Irene, raccogliendo i capelli biondi in una coda.
Alice prese la metropolitana e arrivò nella via alberata in cui abitava.
Era un bel quartiere nella parte nord della città, dove non mancavano mezzi pubblici e negozi: erano fortunati a vivere lì.
Tra sé e sé, pensò a cosa avrebbe potuto cucinare quella sera e decise di andare al supermercato per ispirarsi, vagando tra gli scaffali.
La donna si ricordò che lo faceva anche sua madre: Alice sorrise pensando a lei bambina nel seggiolino del carrello che chiedeva a sua mamma di comprare merendine di ogni genere.
Si ricordò del sorriso della madre, rincuorante e amorevole, anche dopo la morte improvvisa del marito: Alice si sentì meno sola.

“Sono cinquantacinque euro e otto centesimi”, disse la commessa con accento spagnolo.
Alice, si riprese dai suoi pensieri e pagò il conto con la carta di credito, prese i due sacchetti della spesa e si incamminò verso il cancello grigio della casa in cui si trovava l’appartamento in cui viveva con Fulvio.
Incontrò la vicina, una signora corpulenta di sessanta anni e si salutarono, ma Alice non si fermò a parlarle, come faceva spesso, era in ritardo, maledettamente in ritardo e Fulvio la aspettava: sicuramente era sul divano a guardare la grande televisione a schermo piatto, acquistata poche settimane fa.
Aprì la porta blindata bianca che avevano scelto insieme tanti anni prima, quando avevano ristrutturato l’appartamento e vide Fulvio sul divano blu elettrico che guardava il telegiornale.

“Ciao Fulvio”, disse Alice, abbozzando un sorriso meccanico.
“Dove sei stata?”, chiese dal divano il marito, senza neppure salutarla o chiederle come era andata la giornata.
“A fare la spesa”, rispose a bassa voce Alice, mostrando i due sacchetti.
Per qualche secondo Alice pensò ancora a sua madre e le venne in mente quando le diceva che per essere felici nella vita, bisognava capire dove e quando eri effettivamente al tuo posto…forse lei non sarebbe mai stata al proprio posto, quello giusto, forse quello non era il suo posto.
Il marito si avvicinò, era talmente vicino al suo viso, che Alice sentì quell’odore penetrante di alcool e vide il suo ghigno beffardo.
Dove era finito il Fulvio di cui si era innamorata a vent’anni?
Ora cominciava tutto… implacabile…come ogni sera.

“E non ti è venuto in mente di avvisarmi del ritardo, tesoro?”, disse l’uomo con tono viscido e provocatorio, soffermandosi volontariamente sulla parola tesoro.
“Scusami, ma avevo il cellulare scarico. Ho dimenticato il caricatore a casa e così in ufficio non ho potuto caricarlo”, rispose prontamente Alice.
Alice stava per togliersi il cappotto quando sentì un dolore lancinante in viso che la fece crollare a terra, poi sentì il cranio fracassarsi contro il pavimento, poi sentì calci dappertutto, all’addome, alle gambe, poi sentì la bocca impastata e vide le piastrelle chiare che si tingevano di rosso e percepì il piacere che Fulvio provava nel colpirla, ancora e ancora.
In quell’istante le venne in mente quando lei e Fulvio si erano conosciuti: lui sembrava gentile e innamorato…in ogni caso lo aveva sempre perdonato e giustificato pensando che le cose sarebbero cambiate e che forse un po’ di colpa l’aveva anche lei.
Ad un certo punto non sentì più nulla, tranne la porta blindata bianca che sbatteva rumorosamente.
Rimase immobile per alcuni minuti, trattenendo il respiro, in quella che lei definiva la quiete dopo la tempesta: si accorse che metà della stanza era illuminata, mentre l’altra metà era stranamente buia, capì che solo un occhio funzionava ancora, sentì dolore nelle ossa e nei muscoli, si tirò indietro i capelli scuri con la mano sinistra e la vide colorarsi di rosso, persino l’oro della fede sembrava grondare sangue.
Ora era venuto il momento di concentrare tutti gli sforzi nel gesto di respirare e vi riuscì.
Ora era venuto il momento di provare a muoversi per capire se c’era qualcosa di rotto e, ogni volta, il dolore le intimava di limitare i gesti.
Nulla di rotto per fortuna, non come l’ultima volta che le avevano ingessato il braccio destro.
In ginocchio sul pavimento, gettò quindi le mani in avanti, con le dita aperte e strisciò per qualche centimetro.
Forse era ancora viva.
Poi si fermò per riprendere le forze e poi ritrovò la forza per ripartire.
Sollevò quindi il bacino, tirò su le gambe distendendole e tese le braccia.
Era in piedi.
Ben presto fu abbastanza vicina ad una parete da potercisi appoggiare, lasciando impronte dappertutto, ma era l’ultimo dei suoi pensieri.
Prese coraggio e si lanciò nel vuoto, senza pareti e mobili a cui appoggiarsi.

Era viva.

Cominciò ad avanzare verso il bagno, perlustrando con la lingua la bocca per essere sicura di non aver perso qualche dente.
Era arrivata finalmente alla doccia.
Si tolse il cappotto e poi gli altri indumenti, nascondendo tutto nel cesto della biancheria sporca, aprì l’acqua e la tastò, ora andava bene e ci si immerse: guardò l’acqua che diventava rossa scorrere nel piatto della doccia e le sembrò che cancellasse dal suo corpo ogni oltraggio subito.
Stette sotto l’acqua per almeno una mezz’ora fino a quando le sembrò che l’acquatornasse chiara e pura.
Si asciugò il corpo e i capelli lunghi con un asciugamano, piano piano perché il dolore si faceva sentire, i lividi stavano affiorando: nel weekend, come tutte le volte, sarebbero
diventati viola; per fortuna, essendo inverno, lunedì al lavoro li avrebbe coperti con maniche lunghe, dolcevita e calze, per quelli in faccia avrebbe messo un fondotinta coprente che le aveva consigliato Irene e poi avrebbe detto di essere scivolata nella doccia.

Irene le avrebbe fatto la solita ramanzina, parlando di denunce, ma sapeva che l’amica avrebbe rispettato il suo silenzio, temendo una reazione peggiore da parte di Fulvio.
Drin drin drin: corse al telefono, sollevò la cornetta bianca e la mise vicino all’orecchio.
“Pronto”, rispose Alice con voce stranamente calma.
“Buonasera. Chiamiamo dall’ospedale Niguarda. La signora Esposito?”, chiese al di là del filo, la voce chiara di una donna.
“Si sono io”, rispose Alice con tono apparentemente assente.
“Volevamo dirle che suo marito ha avuto un incidente”, continuò la donna.
“Arrivo”, disse Alice.
“Faccia con calma. Ci dispiace, ma il signor Esposito è spirato cinque minuti fa”, terminò la donna.

Alice riattaccò il ricevitore, andò lentamente davanti al grande specchio del bagno ed ebbe finalmente la forza di guardarsi: uno degli occhi era gonfio e semichiuso, la bocca aveva un taglio; tirò fuori dall’armadietto quel rossetto rosso che Fulvio non voleva che lei mettesse e se lo mise assaporando quel momento.

Stefania Beschi