“Cosa facciamo oggi, amore?”, mi chiese Paolo.
“Paolo stavo guardando un articolo che dice quali sono le 58 cose da fare, assolutamente, a Milano almeno una volta nella vita…”, gli risposi.
“E allora cosa hai trovato che non abbiamo già fatto?”, incalzò mio marito con cui spesso cammino per chilometri e chilometri in città per scoprire ogni angolo, anche il più nascosto.
“Tu hai mai visto la colonna del diavolo?”, risposi immediatamente.
“No e che cosa è?”, chiese Paolo.
“E’ una colonna di epoca romana vicino a Piazza Sant’Ambrogio…il suo nome è legato a una leggenda…”, gli risposi con tono misterioso e suspence.
“Mi hai convinto…come sempre, andiamo lì”, disse Paolo, baciandomi.
Era una domenica mattina di ottobre e il clima sapeva ancora di estate: ci preparammo, io misi nel vecchio zainetto azzurro, come sempre, una copia del mio libro e ci incamminammo verso Piazza Sant’Ambrogio.
“Amore passiamo dai resti romani che piacevano tanto a mio papà?”, chiese Paolo.
Accettai immediatamente: volevo bene a Michele, che, purtroppo, ci aveva lasciato a fine febbraio e pensai che da lassù gli sarebbe piaciuto vederci lì.
Era un po’ come rifarlo vivere.
Superammo i resti romanici e alla nostra sinistra apparve il bianco del Tempio della Vittoria, dove riposano le spoglie di tanti milanesi caduti nelle guerre mondiali.
Paolo notò che il cancello era aperto e anche il mausoleo e incuriositi varcammo la soglia.
Mettemmo silenziosi i cellulari e andammo a rendere omaggio ai caduti.
Usciti, sotto la statua in bronzo e dorature di Sant’Ambrogio che calpesta i sette vizi capitali, incontrammo il Signor Giuseppe, un signore dai capelli bianchi, molto elegante e molto distinto, un volontario.
Lo salutammo e io gli confidai, quasi con vergogna, che pur essendo milanese non avevo mai visitato quel sacrario che si sviluppa su tre piani, contenente diecimila nomi di caduti, scolpiti a mano in bronzo e con gli otto lati orientati in direzione delle otto porte di Milano.
“Non è l’unica”, mi rispose con tono gentile il Signor Giuseppe.
Passammo mezz’ora ad ascoltare i ricordi, gli aneddoti, la storia di una Milano che non c’era più.
Il Signor Giuseppe raccontava del quartiere Trecca che si trovava nella periferia sud est di Milano dove lui aveva abitato quando era bambino: un quartiere povero, ma in cui gli abitanti, nonostante la miseria, avevano dei valori, un quartiere che con i suoi negozi di ogni genere più la trattoria era stato il precursore dei moderni centri commerciali.
Ogni parola che diceva aveva un peso come dovrebbe sempre essere, aveva fascino e commuoveva.
Io avevo dimenticato che eravamo usciti per andare a vedere la colonna del diavolo, dove si dice che Sant’Ambrogio avesse affrontato il demonio vincendo, dove i due buchi erano il segno delle corna di satana e dove qualcuno dice sentire odore di zolfo, perché era troppo emozionante ascoltare il Signor Giuseppe.
Stavano arrivando dei turisti per visitare il mausoleo e capii che, a malincuore, era il momento di salutare Giuseppe e di lasciarlo anche agli altri visitatori, tirai fuori dallo zaino il mio libro “La cantina di Alice” perché sarebbe stato bello donare i ricordi della mia nonna a quel signore che parlava ancora milanese, che aveva anche lui dei ricordi, anche se lui era della Trecca e Alice dell’Isola, ma chissà quanto avrebbero chiacchierato insieme, forse quel libro li avrebbe fatti conoscere, li avrebbe fatti incontrare.
Il Signor Giuseppe dai modi gentili era commosso dal gesto, mi porse una penna in quanto voleva una dedica.
Gliela feci con grande felicità, lui mi baciò la mano come un signore di altri tempi e ci dicemmo arrivederci.
Le belle persone esistono ancora per fortuna e vi consiglio una visita al Tempio della Vittoria, sperando che possiate incontrare il Signor Giuseppe.
Credo che le cose comunque non accadano casualmente…abbiamo incontrato il Signor Giuseppe grazie alla passione di mio suocero per la storia, per quei resti romani che lui amava tanto, altrimenti saremmo andati subito alla colonna del diavolo.
Infine Giuseppe ci ha donato i suoi ricordi e io, cara nonna Alice, non potevo non donare ad una persona così garbata e sensibile, i tuoi.